Proprio da questa compartecipazione giungono capacità di aiutare, sostenere e soprattutto comprendere. Indubbiamente il significato è molto ampio, ma si lega sempre al saper “sentire” gli stati d’animo altrui sia negativi che positivi, e al saper alleviare la sofferenza. Di fatto, non può esistere relazione significativa se non c’è empatia: la mamma che consola il suo bambino, lo fa grazie all’empatia; la persona che riesce a condividere la gioia dell’amico, lo fa perché può usare la sua capacità di condivisione empatica; l’innamorato che riesce a sintonizzarsi su ciò che sente l’altro, lo fa usando questo strumento.
Ci sono poi professioni che comportano, o meglio che comporterebbero necessariamente l’empatia: nessuno psicoanalista può condividere il vissuto del suo analizzando, se non possiede empatia; ed anche gli infermieri, i medici e gli operatori sociali dovrebbero essere dotati di questa capacità. Molte volte però questo termine viene confuso con altre qualità che possono essere simili: tipo la simpatia, la compassione o la pietà cristiana.
La parola “empatia” fu usata per la prima volta in Germania da “Titchener”, col significato di “sentire dentro”, e deriva forse dalla parola greca empatheia. Negli ultimi 20-25 anni questa parola è però stata oggetto di divergenze sia teoriche che terminologiche, poiché si è a lungo discusso se dovesse essere considerata un’esperienza affettiva oppure cognitiva. Per molti studiosi viene vista come una condivisione affettiva; tuttavia molti altri considerano la vera empatia come subordinata anche allo sviluppo di capacità cognitive, che consentano in primo luogo di immedesimarsi negli altri, di mettersi dal loro punto di vista e di comprendere il loro modo di valutare cose e situazioni (tutto ciò è frutto del pensiero riflessivo).
In questo contesto cercheremo di definire alcune cose che si riferiscono sia al concetto di “empatia emotiva” che a quello di “empatia cognitiva”, ovvero sia all’aspetto prettamente affettivo che a quello cognitivo. Possiamo infatti vedere come l’empatia richieda l’uso di entrambe le tonalità – affettiva e cognitiva – anche se apparentemente potrebbero sembrare in antitesi: in realtà, solo un vissuto affettivo può permetterci di “sentire”, ma le capacità cognitive ci mettono in grado di vedere e comprendere pienamente la prospettiva dell’altro.
Inoltre, l’empatia necessita di due presupposti anch’essi apparentemente antitetici: la fusione affettiva tra sé e l’altro e la differenziazione tra sé e l’altro. Senza differenziazione infatti non è possibile giungere ad una vera condivisione, perché gli stati emotivi altrui non sono riconosciuti come esterni a sé, e quindi non vengono correttamente discriminati. Tuttavia, senza la capacità fusionale che consente di far propri gli stati emotivi altrui, non vi può essere empatia.
L’empatia è quindi il risultato di un equilibrio estremamente complesso, tra la capacità di discriminare e riconoscere gli affetti dell’altro come diversi dai propri, e quella di accoglierli e farli propri. L’empatia affonda le sue radici nella simbiosi madre-figlio, si raffina con l’evoluzione della differenziazione tra sé e l’altro, per giungere infine ad una reale maturità, allorché si è in grado di percepire con estrema esattezza i sentimenti ed i vissuti altrui, staccandoli totalmente dai propri, fino al punto da comprendere pienamente il punto di vista dell’altro.
Secondo un’ottica psicologica, già “Reik” nel 1949, riteneva che la forma più evoluta di empatia, necessitasse di un distanziamento che potesse consentire una risposta in grado di riflettere sia la comprensione dell’altro che la differenziazione da esso. Proprio questa definizione consente di vedere che l’empatia è figlia sia di processi cognitivi che di processi affettivi.
Nella prospettiva affettiva dell’empatia, diventano centrali i meccanismi di introiezione e proiezione. La proiezione può essere definita come l’attribuzione di propri atteggiamenti, pensieri e sentimenti ad un’altra persona. Comporta sempre una riduzione della differenziazione tra sé e gli altri, e l’inconsapevole sovrapposizione dei propri contenuti psichici e del proprio vissuto con quelli dell’altro. L’introiezione invece si riferisce alla capacità umana di incorporare sentimenti, atteggiamenti e pensieri altrui. È chiaro che la disponibilità ad accogliere l’emozione altrui, può rendere la persona troppo permeabile ad introiettarne i contenuti, al punto da subire un vero e proprio “contagio”. Ciò accade in modo naturale e positivo, nel rapporto madre-figlio durante le prime fasi di sviluppo infantile, ma anche successivamente: in questo caso la differenziazione tra sé e l’altro si annulla.
Possiamo quindi sostenere che la radice dell’empatia stia nelle prime manifestazioni di “contagio” emotivo. Infatti, la possibilità di essere empatici deriva proprio dall’attaccamento tra madre e figlio, in cui si verifica un vero e proprio “mimetismo affettivo”, e in cui non vi sono confini. In queste prime fasi di relazione tra madre e figlio troviamo le prime reali manifestazioni di questa forma di empatia. Il bambino passa da una posizione di fruitore ad una di scambio, iniziando a partecipare attivamente al rapporto con la madre e con la famiglia.
Questo contesto iniziale e familiare, è importante per la possibilità o meno che il bambino avrà in futuro di creare rapporti solidi e positivi con gli altri e di rispondere emotivamente agli altri. Molto dipenderà quindi dal tipo e dall’intensità di tali emozioni: se saranno rassicuranti, il bambino non sarà spaventato da esse, se invece avranno un’intensità eccessiva, potranno procurare al bambino disagio e ansia.
Ovviamente, questa è la forma più primitiva di empatia; è spontanea, istintiva, immediata, involontaria, e caratterizzata da assenza di mediazione cognitiva. In questa fase quindi non possiamo ancora parlare di una vera e propria empatia e la psicologia evolutiva la chiama appunto contagio, riservando l’altro termine solo alle forme più differenziate e non automatiche di risposta e condivisione.
Il meccanismo del contagio è stato utile anche nelle prime tappe evolutive dell’umanità, poiché la capacità di essere contagiati era utile anche come meccanismo di difesa, consentiva anche ad individui molto primitivi di allevare i piccoli, di sintonizzarsi sul dolore altrui e di alleviarne le sofferenze. Si tratta quindi di una tendenza universale che sta alla base di ogni consorzio umano e che svolge un ruolo profondo nella formazione del legame sociale. Ovviamente si tratta di una primitiva struttura che dovrebbe, in teoria, rimanere confinata alla sola prima infanzia, ma che in realtà ritroviamo in persone che non hanno compiuto i necessari passi di differenziazione, e che non hanno stabilito confini solidi tra sé e gli altri; può comparire anche in casi di regressione, dovuti a situazioni di emergenza o a choc emotivi, che annullano temporaneamente la differenziazione.
Il contagio si compone di due modalità:
- L’imitazione motoria, che è un processo automatico di risposta alle emozioni altrui. Questa particolarità produce nell’osservatore uno stato emotivo simile a quello della persona osservata, senza che vi sia alcun intervento da parte di processi cognitivi di mediazione più elaborati, quali la discriminazione e la rappresentazione dello stato emotivo dell’altro. Questa modalità comporta la capacità del bambino di compartecipare agli stati emotivi della madre per sintonizzazione.
- La tendenza del bambino a mostrare le stesse emozioni che mostra l’altro, quindi, ad esempio, a piangere quando piange un altro bambino. Questa sembrerebbe una reazione più specifica che avviene in risposta agli stimoli sociali esterni.
In individui immaturi che non hanno compiuto i necessari passi di differenziazione, la sintonizzazione con gli altri è immediata, ma non vi è capacità di riconoscimento vero, tra ciò che accade dentro e ciò che invece appartiene al fuori. Il modello emotivo in questo caso è di tipo fusionale, ed è pochissima o nulla la distanza tra sé e l’altro. Questi soggetti tendono poi a proiettare egocentricamente le loro emozioni sugli altri, giacché hanno anche molte difficoltà a contenerle. La proiezione sugli altri di propri stati emotivi, è quindi considerata a livello psicologico un processo di cruciale importanza nell’ostacolare la condivisione emotiva reale.
Una forma di empatia matura di condivisione, presuppone la definitiva conquista della differenziazione fra sé e l’altro. L’ipotesi più accreditata è che i soggetti empatici manifestino una maggior disponibilità ad accogliere e a fare proprie le emozioni altrui, senza attribuire le proprie ad altri. Hanno quindi un atteggiamento meno difensivo e di minore egocentrismo. L’empatia vera comporta la messa in atto di buone abilità non solo cognitive e sociali ma anche affettive, e l’attuazione di un modo di essere con gli altri attento e responsivo, non troppo centrato su di sé e sui propri problemi. Questa seconda fase empatica implica quindi innanzitutto il riconoscimento dell’altro come persona separata da sé e una sana capacità di condivisione. Comporta anche la capacità di vedere le emozioni degli altri come appartenenti ad un’altra persona differenziata e la consapevolezza che l’altro possa provare stati emotivi interni diversi dai nostri.
In secondo luogo l’individuo deve essere in grado di assumere la prospettiva dell’altro, per poterne comprendere intenzioni, pensieri e motivazioni, il che significa aver superato pienamente lo stadio dell’egocentrismo ed aver acquisito un crescente controllo del proprio punto di vista, che viene sempre più differenziato e non sovrapposto a quello altrui, anche in condizioni di “attivazione emotiva”. Si tratta anche di saper comprendere che gli altri, anche in situazioni simili a nostri vissuti, possono avere modi molto diversi di sentire, poiché la loro personalità è diversa, così come lo sono i loro atteggiamenti, i loro valori e i loro punti di riferimento.
Questo, tuttavia, può portare anche a temporanee fusioni emotive, senza che vi sia un contagio di tipo psicologico, e portare altresì ad un comportamento con finalità del tutto diverse, che può non tradursi affatto in condivisione. Possono cioè entrare in gioco meccanismi di tipo difensivo, che inducono il soggetto a chiudendosi nei confronti dell’altro, pur provando empatia. In questo caso il soggetto potrebbe addirittura assumere un atteggiamento negativo e sfruttare la propria capacità per aggredire l’altro e fargli del male, in maniera volontaria e premeditata. E’ il tipico caso in cui vi sono degli atteggiamenti ricattatori, fatti con un intento finalizzato ad avere un preciso potere sull’altro (cosa molto diversa dall’inconsapevolezza del ricatto emotivo, volto a mantenere o creare una situazione di dipendenza, indispensabile per la persona che non ha raggiunto un grado di autonomia).
A questo livello troviamo gli aguzzini, i torturatori, i sequestratori e gli psicopatici che usano il controllo emotivo per colpire in maniera più circostanziata ed efficace le loro vittime. In questi casi la rappresentazione del vissuto dell’altro (ad esempio, il capire quali sono le cose a cui l’altro tiene di più o le sue reazioni alla sofferenza) può essere usata per ferire più efficacemente e raggiungere i propri scopi. Tale capacità empatica può essere usata anche per organizzare una vendetta o per ricattare materialmente o moralmente l’altro, proprio basandosi su una approfondita ed assolutamente corretta rappresentazione del vissuto altrui. Per questo tipo di empatia occorre una buona mediazione cognitiva, che permetta di differenziare l’esperienza dell’altro, senza coinvolgimento.
L’ultima forma di empatia, la più differenziata in assoluto, richiede un buon processo di individuazione, un buon sviluppo dell’identità, una crescente consapevolezza che tutti gli individui hanno una propria storia e una loro identità da rispettare. In questa fase la conoscenza e il saper padroneggiare le proprie emozioni, che si è formalizzato in un sano distacco, offrono nuove opportunità; ad esempio la capacità di rappresentazione può anche riguardare non soltanto un individuo, ma generalizzarsi ad interi gruppi sociali, quali i deboli, gli ammalati, gli emarginati, ecc. Questa persona, può essere fortemente segnata dall’idea che la condivisione sia un valore da perseguire, in quanto considerato moralmente valido e importante.
Questo tipo di empatia necessita ovviamente di una potente radice affettiva, che tende alla promozione di comportamenti positivi verso gli altri. Alcuni autori hanno anche riconosciuto a questo tipo di empatia, un vero e proprio ruolo nel contrastare l’aggressività nei rapporti umani e nel promuovere relazioni sociali positive di accettazione reciproca, anche in condizioni difficili. Ovviamente ciò può portare anche ad una sorta di empatia egocentrica, nel senso che il soggetto fa quello che, in base alla propria esperienza, allevierebbe la sua sofferenza in una situazione simile a quella in cui si trova l’altro, ma non tiene conto dell’effettivo bisogno dell’altro, non si rende conto che l’altro potrebbe aver bisogno di un aiuto di tipo diverso. Un esempio tipico, è il soggetto che conforta una persona che ha subito un lutto, con discorsi religiosi che avrebbero effetto su sé stesso, ma non sull’altro, che essendo privo di convinzioni religiose, non può trarre alcun giovamento dai suoi discorsi.
Questo tipo di empatia richiede quindi un effettivo decentramento cognitivo, ovvero la capacità di considerare la situazione esclusivamente dal punto di vista dell’altro, e di mettere in atto comportamenti sociali e di aiuto davvero decentrati. Questo tipo di empatia, può essere definita altruistica, ed è quella in cui non vi dovrebbe essere alcun vantaggio né diretto né indiretto, né presente né futuro per chi la applica.
Per concludere, possiamo dire che nel particolare contesto storico in cui stiamo vivendo, l’indifferenza nei rapporti sociali, la tendenza a tenere i bambini lontani dalla partecipazione ai momenti di dolore (quali la malattia e la morte), la chiusura dei nuclei familiari, e la sempre più massiccia presenza nella vita infantile dell’esperienza passiva attinta dalla televisione, a danno dei rapporti reali, rappresentano gli ostacoli più pesanti al raggiungimento di una “sana empatia”, e quindi di una buona capacità di entrare in relazione con il prossimo, nonché della possibilità reale di migliorare sensibilmente le condizioni sociali in cui ci troviamo a vivere. L’empatia serve infatti anche per negoziare e per risolvere conflitti. In questi casi bisogna assolutamente sapersi mettere nei panni degli altri, riconoscere e vivere empaticamente i loro obiettivi. È difficile cedere anche su un solo punto, se non si capiscono le ragioni della controparte.
Relazione di Lidia Fassio, Incontro di Convivio – Roma 1 aprile 2001
Rivisto da Fisicaquantistica.it
Visto su Compressa-mente
Test dell'Empatia http://www.nienteansia.it/test/test-empatia.html
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