domenica 17 febbraio 2013

Ricordando Giordano Bruno


Dopo più di 400 anni dalla sua scomparsa ricordiamo Giordano Bruno con una sintesi del suo pensiero. 

Il pensiero di Giordano Bruno non può essere scisso dalla sua vicenda personale, dalla sua tragica fine. Un corrispondente di Keplero (che apprezzava l'opera di Bruno) gli confessava, nel 1608, di non essersi saputo dare ragione della fine del filosofo: dal momento che non credeva più in un Dio di giustizia, distributore supremo di pene e di premi nell'aldilà, perchè sopportare tanti patimenti soltanto per difendere la verità? Era una domanda grave, che ci fa pensare al diverso comportamento di Galileo e ci ripropone il problema del significato di tutta la cultura del Rinascimento, di cui Bruno costituisce insieme, il culmine e l'epilogo. Proprio rifiutandosi di rinnegare le proprie idee, lui che non credeva più nelle tavole dei valori, si faceva martire e confessore di altri valori e di un altro modo di concepire la vita. Egli, come altri uomini del Rinascimento, aveva affermato che la dignità dell'uomo, la sua nobiltà, il suo significato, dipendono dal suo agire; cheil premio dell'azione è nel senso dell'azione, nella sua fecondità, in quello che l'azione dà per se stessa. Ma questa concezione della vita, che rompeva con una vecchia morale, non significava rifiuto di vincoli morali, bensì una morale nuova e più rigorosa intesa come responsabilità personale e profonda. Proprio quello che l'amico di Keplero non capiva nel gesto di Bruno costituiva la maggiore conquista di una civiltà di cui la fermezza del filosofo diventava il simbolo.

Ma Bruno significa anche un'altra conquista: l'uomo restituito a se stesso, reso padrone della propria sorte. Divenuto centro consapevole del proprio mondo, riconosce la grandezza e il significato della natura, dell'universo fisico che lo circonda, ne comprende l'immensità,le forze inesauribili, le forme infinite, l'estensione senza barriere. Rompe l'immagine casalinga di un mondo simile a una grande casa, fasciata e chiusa da sfere cristalline e immutabili. Liberato da una falsa concezione del divino, proprio nel punto in cui conquista l'autonomia morale, l'uomo ha il coraggio di liberarsi da una visione primitiva del mondo. Sa che egli non è il centro fisico dell'universo, anche se si accorge della potenza della propria ragione e delle proprie capacità. Per paradossale che possa sembrare, nel punto in cui il pensiero umano afferma la sua centralità nel mondo morale, distrugge la veduta puerile dell' antropomorfismo fisico attraverso la distruzione del geocentrismo. E ne nasce quella concezione del mondo fisico e del mondo morale che è stato caratteristica del mondo moderno, e che ha significato una doppia liberazione: dalle superstizioni prima e dai servaggi poi, sul terreno etico-politico; dalla soggezione alla natura, che non può essere dominata se non è affrontata "scientificamente". Orbene colui che trasformò l'ipotesi eliocentrica copernicana in una solenne concezione liberatrice, avanzando l'idea di mondi infiniti, di spazi senza confini; chi affrontò impavido l'idea dell'infinito universo e degli infiniti mondi, fu ancora Giordano Bruno.

Come la lotta contro la bestia trionfante del mito e della superstizione libera l'umanità sul piano morale e la restituisce integra a se stessa, così l'interpretazione dell'ipotesi astronomica di Copernico come concezione liberatrice della natura universale, libera la mente da quella antica barriera che le impediva di affrontare la natura com'è, senza timori, per esplorarla e trasformarla. Entro questa visione del mondo, matura una precisa concezione morale che fa corpo con essa, e che si articola in due momenti:
1) La liberazione dal vizio e dalla superstizione (fra loro indissolubili);
2) La conquista della virtù e della verità, indissolubili anch'esse.

La sua è un'etica di operosità, un elogio congiunto del lavoro manuale e di quello intellettuale. L'uomo - scrisse ancora -non contempli senza azione e non operi senza contemplazione. Soprattutto negli Eroici Furori si accentua la visione dell'infinito e la celebrazione dello sforzo che l'uomo fa per oltrepassare "eroicamente" tutti i limiti e tutti i confini. Che era un modo di sottolineare in forme poetiche l'inarrestabile slancio umano, oltre tutte le posizioni raggiunte, per la supremazia della verità.
Egli sta contro tutto il Medio Evo e lo scrolla dai cardini. Insegna che non vi è che un solo cielo, uno spazio infinito entro cui tutte le cose si muovono. In questo spazio sconfinato sfavillano innumerevoli stelle, folgoranti soli, anzi, sistemi di soli, poichè ogni sole, dice Bruno, è circondato di pianeti che egli, a somiglianza del nostro, chiama terre. Non vi sono che soli e terre e la ragione per cui vediamo soltanto i soli è la lontananza, che ci impedisce di vedere le terre opache. Tutti i movimenti nello spazio sono relativi; nessuna stella si trova al centro dell'universo, ma ognuna è centro del suo cielo nel suo sistema. In questo senso vi sono cieli innumerevoli. Non si dà un "sopra" e un "sotto" se non in senso relativo. Dicasi lo stesso della leggerezza e della gravità. Nessun corpo è in se' pesante, mo solo in rapporto al suo centro di attrazione. Bruno ha un presentimento della gravitazione universale nella seguente affermazione: i corpi si muovono liberamente nello spazio e si mantengono nella loro reciproca posizione grazie alla forza di attrazione. I soli si muovono attorno al loro asse, e oltre questo si ha un movimento nello spazio. Dal Cusano, Bruno conosce le macchie solari. Prima del Tycho Brahe, ricava dal movimento delle comete la prova che non esistono sfere fisse, alle quali stiano appiccicati i piani e meno ancora che si tratti di sfere di cristallo. Il mondo di Bruno è il mondo reale, come lo conosce la scienza contemporanea. Non sarà mai dimenticato che egli fu il primo che comprese la vera costituzione del cosmo. La sua concezione dell'infinito rovescia la concezione geocentrica della chiesa e sviluppa la concezione eliocentrica di Copernico. La personalità morale di Bruno s'intravede in questa risolutezza nel giungere alle conclusioni estreme. Dove il cauto astronomo trovava un limite o una barriera, egli non si arresta. Bruno non ha le positive cautele degli scienziati di mestiere, pieno com'è del convincimento del potere sterminato della ragione. Se Copernico si accontenta di rivoluzionare il sistema del nostro sole, egli non capisce perchè non si debba andare più in là.

Giordano Bruno nella teologia proclamò il panteismo. Nella cosmologia intuì l'infinità dello spazio. Nell'astronomia sostituì il sistema eliocentrico a quello geocentrico. Nella biologia affermò l'esistenza della vita in tutta la natura. Nella psicologia dimostrò il pampsichismo, cioè l'animismo universale. Nell'etica gettò le basi di una morale positiva, areligiosa e indipendente sostenendo che tutto l'universo è pervaso da una teleologia immanente, per cui si perfeziona e si migliora ogni cosa, essendo la natura causa, legge e finalità a se stessa. Distruttore dei pregiudizi dei suoi tempi, egli - soprattuto - ricostruì la scienza e la filosofia della natura; distrusse le antitesi della metafisica, nella filosofia e nella scienza. Combattè l'antitesi tra la forma e la materia, sostenuta dai filosofi dualisti. Combattè l'antitesi tra il cielo e la terra, sostenendo l'unità di questi, la teoria geocentrica e l'ipotesi della pluralità dei mondi. combattè l'antitesi tra lo spirito e la materia, tra l'anima e il corpo, tra il senso e l'intelletto, sostenuta dagli psicologi dualisti, conciliando questi termini, creduti contraddittori, e sostenendo l'unità dello spirito e della materia, l'inseparabilità dell'anima e del corpo e l'identità del senso e dell'intelletto. Contro le antitesi tra la causalità cosmica e la volontà divina, tra la necessità naturale e la libertà morale, tra la finalità trascendente e la finalità immanente, tra il bene ed il male, si sforzo di conciliare tutte queste antinomie, riportando i contrari all'unità assoluta, dove tutte le differenze restano eliminate. Contro il dualismo tra Dio e la Natura, sostenne che Dio non è una causa esteriore al mondo, ma un artista interiore, un principio efficiente, informativo dal di dentro. L'erroneo concetto del cristianesimo aveva scisso Dio dalla Natura, segregato la Natura dall'uomo. La Natura era decaduta, maledetta, asilo di demoni, di spiriti malvagi. L'unità nell'infinito o nell'immenso è il concetto fondamentale del brunismo. L'infinito non solo risplende nella massima esplicazione dell'universo, ma anche nell'opposto limite, cioè nella complicazione del minimo elemento, nella monade. In tutto c'è vita. L'universo è contenuto in potenza nella monade, così come nell'individuo è contenuta la specie, la nazione, l'umanità.

Bruno è stato spesso visto dai clericali quasi come un anticristo. Ora, occorre dire chiaro che Bruno criticò la Chiesa e il clero del suo tempo, scardinò molti dei dogmi del cristianesimo, ma non fu maestro di irreligiosità. Per lui ogni parte, anche minuscola dell'universo, è la divinità stessa. L'universo si confonde con la sostanza, cioè con Dio. La conoscenza del divino è razionale, cioè si giunge ad essa con la nostra ragione, ed è questa la forma più perfetta per conoscere la divinità. I preti non c'entrano niente. Ma negli Eroici Furori egli spiega che la divinità si conosce in due modi: per via di ragione e per contatto mistico. Bruno naturalmente dà dignità solo alla prima maniera. Coloro che conoscono Dio per ratto mistico - dice - sono simili all'"asino che porta i sacramenti". Conoscono il vero, ma non c'è merito. Vi sono per lui due modi di conoscere: quello che dà la filosofia e quello che dà la religione. Bruno sceglie il primo, ma non rigetta il secondo. Nel De Umbris Idearum dice che "la religione è l'ombra della verità: ma non è il contrario della verità". E' una conoscenza incerta, pallida, dubbia, una conoscenza contraddittoria escura, che non dà pieno affidamento, ma comunque è un grado della verità. L'ombra è un invito a passare nella luce. La religione deve intendersi come un invito ad assurgere alla filosofia. L'essenziale per Bruno, non è la religione, ma la morale. Una morale senza dogmi (come è stata giustamente definita), che elimina la necessità di una educazione ecclesiastica. Che mira alla liberazione attraverso lo sforzo e la volontà individuale. La filosofia bruniana è una filosofia dell'eroismo, diretta a liberare gli uomini dalla paura. Quando la paura - afferma - sia caduta dal nostro animo, noi siamo veramente uomini, parte consapevole, cioè, dell'infinito.

I maestri e le fonti

Si è discusso spesso su chi fossero i cosiddetti "invisibili" di Bruno. Coloro che prima di lui si erano scontrati con le dottrine e le chiusure mentali dei tempi. Quelli che con diversa passione avevano assaporato il piacere della conoscenza e avevano scelto di intraprendere il lungo cammino che porta alla ricerca della verità. La lettura di alcuni di questi autori, proibiti nel convento di San Domenico, dove Bruno studia, gli procurano le prime accuse di natura eretica. Quella di altri, che sarebbe riduttivo riportare in queste pagine (Platone, Aristotele, Socrate...), gli lasciano intravedere in positivo e negativo quello che di lì a poco diverrà il proprio pensiero filosofico. Sono le ombre di questi sapienti che lo sosterranno negli ultimi anni di vita, passati nel carcere in solitudine. Quelli che Bruno non tradirà mai con l'abiura, nel cui nome sopporterà torture e digiuni, ma soprattutto per le cui idee affronterà il tragico epilogo.

Ermete Trismegisto - Corpus Hermeticum
Tommaso D'Aquino (1126 - 1198)
Ibn Rushd - Averroè' (1126 - 1198)
Ramon Lull (1232 - 1316)
Niccolò Cusano (1400 - 1464)
Marsilio Ficino (1433 - 1499)
Pico della Mirandola (1463 - 1494)
Erasmo da Rotterdam (1469 - 1536)
Paracelso (1493 - 1541)
Tommaso Campanella (1568 - 1639) 


Ermete Trismegisto - Corpus Hermeticum

I testi del Corpus Hermeticum e dell'ermetismo hanno una storia complessa. Le teorie ermetiche risalgono all'epoca dei Tolomei (II secolo a.C.), fiorite probabilmente in ambiente Alessandrino. La loro sistemazione scritta tuttavia va dal I secolo al III secolo d.C. L'ermetismo venne discusso da filosofi pagani e cristiani, influenzando sia le filosofie tardo-antiche e sia il nascente cristianesimo.
Il cristianesimo cercò di combattere le dottrine ermetiche dichiarandole eretiche. Infine nel VI secolo sembra che la letteratura ermetica si sia perduta nel nulla. Poi nel XI secolo Michele Psello, erudito bizantino, fa risorgere la tradizione ermetica e il Corpus Hermeticum. Con Psello, si può ritenere conclusa la formazione del corpus che giungerà in Occidente nel 1460.
I dialoghi ermetici vengono presentati come delle rivelazioni di Ermete Trismegisto ( Ermete tre volte grande) agli uomini, riguardo la natura divina, l'antropogonia, la cosmogonia, l'escatologia, la filosofia religiosa ed altro.
I personaggio dei testi ermetici, oltre a Ermete stesso, sono Iside, Aslepio, Ammone, Horus, il figlio di Iside e Agathos Daimon (che corrisponde a Kneph). Inoltre soltanto nei dialoghi ermetici appaiono personaggi come Poimandres, Tat e il sacerdote Bitys. Questi dialoghi sono naturalmente ambientati in Egitto. La figura di Ermete Trismegisto è estremamente interessante: Ermete fu identificato dai greci con il dio egiziano Thot (dio egizio Lunare della scrittura). Questa identificazione risale almeno ad Erodoto ed è presente in Platone nel "Fedro" (con il mito di Theut) e nel "Cratilo". Sappiamo quindi che Ermete e Thot erano associati all'invenzione della scrittura, alla medicina, al regno dei morti, alla capacità inventiva, alla frode e all'inganno.
Inoltre sia Thot che Ermete avevano un ruolo demiurgico. I greci vedevano l'Egitto come la terra della conoscenza perduta di un tempo estremamente remoto, quindi il fatto di possedere in lingua greca scritti composti dallo stesso dio Thot (Ermete), dava prestigio ai testi e conferiva loro importanza.
Chiaramente testi scritti dallo stesso dio della conoscenza erano qualcosa di incredibilmente importante e sacro. Una tradizione mitologica dice che l'Ermete dei testi del corpus era nipote del vero Ermete Trismegisto e aveva tradotto dagli originali egiziani gli scritti di suo nonno. Quindi se pensiamo che tutto ciò sia storico il "vero Ermete" sarebbe vissuto poco prima dell'arrivo dei Greci di Alessandro Magno in Egitto. Ma credo proprio che dietro alla figura di Ermete e delle arcane conoscenze dell'Egitto ellenistico, ci sia qualcosa di più importante. Probabilmente esisteva una sorta di setta che custodiva i segreti di Thot, ma allora qual'era la fonte principale delle conoscenze ermetiche? Lo stesso dio? E quando erano nate queste conoscenze?
Ipotizzando che il dio Thot fosse un uomo di eccezionali capacità che alla sua morte fosse stato divinizzato, lo potremmo collocare ai tempi del regno di Osiride. Osiride era a capo di un gruppo di superstiti di Atlantide e delle sue colonie diretti in Egitto circa nel 10000 a.C. Thot-Ermete, secondo Diodoro Siculo, era un grandissimo scienziato che aiutò Osiride nell'opera civilizzatrice in Egitto. Ecco cosa dice Diodoro nella sua Biblioteca Storica ( libro I, 15-16): "Tra tutti - aggiungono - Osiride teneva nel più alto grado di considerazione Ermes, perché fornito di naturale sagacia nell'introdurre innovazioni capaci di migliorare la vita associata.
Secondo la tradizione, infatti sono opera di Ermes l'articolazione del linguaggio comune, la denominazione di molti oggetti fino ad allora privi di nome, la scoperta dell'alfabeto e l'organizzazione dei rituali pertinenti agli onori e ai sacrifici divini. Egli fu il primo ad osservare l'ordinata disposizione degli astri e l'armonia dei suoni musicali secondo la loro natura; fu l'inventore della palestra e rivolse le sue cure allo sviluppo ritmico del corpo umano. Inventò anche la lira con tre corde fatte di nervi, imitando le stagioni dell'anno: adottò infatti tre toni, acuto, grave, medio, in sintonia rispettivamente con estate, inverno, primavera.
Anche i Greci furono da lui educati nell'arte dell'esposizione e dell'interpretazione, vale a dire l'arte dell'ermeneutica, e per questa ragione gli hanno dato appunto il nome di Ermes. In generale Osiride ebbe in lui il suo scriba e sacerdote: a lui comunicava ogni questione e ricorreva al suo consiglio nella stragrande maggioranza dei casi. Invece di Atena, come credono i Greci, sarebbe stato Ermes a scoprire la pianta dell'ulivo." Come si può capire Ermes era il "factotum" di Osiride.
Ermes svolse ogni genere di mansione e tentò di portare un po' di ordine nel disordine generale causato dalla fine della civiltà. Probabilmente Thot aveva lasciato dei testi dove cercava di preservare il suo sapere, che sono stati tramandati di generazione in generazione, forse, fino all'epoca ellenistica, certamente estremamente diversi dagli originali. 

Tommaso D'Aquino (1232 - 1316)

Tommaso nacque nella famiglia dei conti di Aquino da Landolfo e Teodora verso il 1225. Da giovanissimo fu affidato ai monaci benedettini di Montecassino, dove ricevette la prima educazione. Verso i 18 anni Tommaso decise di entrare nell'ordine dei Domenicani e, nonostante le forti resistenze da parte della famiglia, resistette e scelse la sua vocazione. Tutta la vita di Tommaso fu spesa nello studio e nella contemplazione ed egli morì a neppure cinquant'anni, nel 1274, dopo aver lasciato moltissimi scritti. Fra essi ricordiamo : De ente et essentia, Summa contra Gentiles e Summa theologiae. Fu forse il pensatore più importante del Medioevo e la sua influenza, nell’ambito della Chiesa cattolica, è tuttora fondamentale. Era un uomo grande e grosso, bruno, un po’ calvo ed aveva l’aria pacifica e mite dello studioso. Per il suo carattere silenzioso lo chiamarono "il bue muto". Tutta la sua vita fu spesa nell’attività intellettuale e la sua stessa vita mistica la sua ricerca instancabile di Dio. Fu canonizzato nel 1323.
Tommaso elabora "cinque vie" per giungere a dimostrare che Dio esiste. La prima via è quella del moto, ed è desunta da Aristotele. Essa parte dal principio che tutto ciò che si muove è mosso da altro. Ora, se tutto ciò che è mosso a sua volta si muove, bisogna che anch’esso sia mosso da un’altra cosa e questa da un’altra ancora. Ma non è possibile andare all’infinito altrimenti non vi sarebbe un primo motore e neppure gli altri muoverebbero. E’ dunque necessario arrivare ad un primo motore non mosso da altro, e "tutti riconoscono che esso è Dio".
La seconda via è quella causale. Nel mondo vi è un ordine tra le cause efficienti (causa efficiente è ciò che da origine a qualcosa) ma è impossibile che una cosa sia causa efficiente di se stessa, perché altrimenti sarebbe prima di se stessa, dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente "che tutti chiamano Dio". La terza via è basata sul rapporto tra il possibile e il necessario. Vi sono cose che possono essere e non essere: infatti alcune nascono e finiscono, il che vuol dire appunto che sono possibili, possono essere e non essere.
Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che può non essere un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose possono non essere, in un dato momento non ci fu nulla nella realtà. Dunque non è vero che tutti gli esseri sono possibili ma bisogna ammettere che nella realtà vi sia anche un essere necessario, "e questo tutti dicono Dio". La quarta via è quella dei gradi di perfezione. Si trova nelle cose il più e il meno di ogni perfezione, cioè di bene, vero, bello ecc. Vi sarà dunque anche il grado massimo di tali perfezioni e "questo chiamiamo Dio".
La quinta via è quella desunta dal governo delle cose. I corpi fisici (pianeti, stelle ecc.) operano per un fine, come appare dal fatto che operano quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione; donde appare che non a caso, ma per una predisposizione, raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo di intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, come la freccia viene scoccata dall’arciere. Vi è dunque un essere sommamente intelligente da cui tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine, "e questo essere chiamiamo Dio". 

Ibn Rushd - Averroè (1126 - 1198)

Ibn Rushd (Abû al-Walîd Muhammad ibn Ahmad ibn Muhammad ibn Ahmad ibn Ahmad inb Rushd) nacque nel 1126 a Cordova e morì a Marrakech il 10 dicembre 1198. Nel XII secolo l'Andalusia faceva parte dell'impero degli Almohadi, impero che si estendeva a tutta l'Africa del Nord e durante il quale l'Occidente arabo conobbe gloria e ricchezza. Ibn Rushd era astronomo, medico, giurista e filosofo. Figlio di giuristi, appartenente quindi ad una classe sociale elevata, vissuto nella stabilità dell'impero almohade ebbe modo di costruirsi una cultura vastissima. Durante un viaggio a Marrakech notò una stella che non si poteva vedere sotto i cieli spagnoli: Canepe.
L'osservazione di questo fenomeno gli permise di intuire la rotondità della Terra. Durante un altro viaggio a Marrakech, Ibn Rushd conobbe Ibn Tufail, medico del Califfo Yûssûf ibn Ya'qûb e questi lo incaricò di tradurre e commentare le opere di Aristotele in quanto lui era troppo vecchio per tale mansione e le traduzioni fino allora esistenti erano troppo oscure. Ibn Rushd accettò e s'impegnò in un lavoro che durò più di 15 anni, ma l'opera del grande filosofo greco fu quasi interamente tradotta. Alla morte del Califfo, Ibn Rushd mantenne un posto di primissimo piano come medico di corte e confidente del successore di quest'ultimo Ya'qûb detto al-Mansûr "Il Vittorioso" per la strepitosa vittoria di Alarcos del 1195 contro Alfonso VIII di Castiglia e i principi cristiani di Spagna sempre più minacciosi.
Poi improvvisamente caddè in disgrazia, il sovrano lo esiliò e i discepoli lo rinnegano. I sovrani Almohadi cercavano sempre la compagnia dei "falâsifa" (i filosofi), li stimavano e non avevano mai manifestato ostilità fanatiche nei loro confronti. Se Ibn Rushd cadde ingiustamente in disgrazia, fu probabilmente a causa di circostanze forzate. Le sue dottrine filosofiche dovevano indisporre non poco i teologi limitati e i giuristi pedanti incapaci di interpretazione personale dei testi. Furono quindi ragioni di stato che obbligarono al-Mansûr ad allontanare Ibn Rushd anche perché la minima debolezza del sovrano sarebbe stata immediatamente sfruttata dai principi cristiani di Castiglia e León. Ritornata la calma al-Mansûr riabilitò Ibn Rushd che ritorno a Marrakech dove mori il 10 dicembre all'età di 72 anni. Le spoglie furono trasferite nella sua città nataleCordova.Ibn Rushd non si occupò solo di medicina o dei commenti all'opera di Aristotele scrisse anche molti libri di filosofia.
In particolare ricordiamo un trattato sulla non contraddizione tra filosofia e religione che lo pone al vertice della riflessione filosofica del suo tempo e non solo. Ibn Rushd sosteneva che i testi sacri sono legittimamenteinterpretati in modo diverso dal filosofo dal teologo o dal profano. La "verità" può quindi essere interpretata in modo diverso secondo la formazione intellettuale dell'individuo.
Questo approccio critico poteva suscitare le reazioni di molti, era in un certo senso "rivoluzionario" e lo sarebbe ancora oggi. Se i Musulmani che vennero dopo di lui non approfittarono dei suoi insegnamenti e ebbero verso le sue opere un approccio superficiale (molte erano diffuse in latino ed ebraico), non fu così per i Cristiani e gli Ebrei dai quali fu considerato una personalità ineguagliabile.
Le sue dottrine verranno insegnate in Europa fino al XVIII secolo, in particolare il trattato del De anima nella traduzione in latino di Micael Scott del 1230 e ciò nonostante le condanne dell'Inquisizione e del Concilio di Trento che consideravano eretiche e blasfeme le teorie di Averroè, anche se l'averroismo professato in Europa è solo un pallido riflesso della sua cosmologia. Molti filosofi e teologi europei devono molto a Ibn Rushd, tra questi citiamo i più conosciuti: San Tommaso d'Aquino, Bacone, Spinoza, Leibnitz.
Combatté apertamente contro le degenerazioni del pensiero aristotelico attuate dagli integralisti teologi musulmani e da Avicenna. Punto sostanziale é l'intervento di Dio nel mondo. Dio è atto puro. Se ne prova l'esistenza con i passaggi avicenniani a contingentia mundie dei gradi di perfezione: tali modalità di prove vennero poi accolte come terza e quarta prova da S.Tommaso. Non esiste una creazione ex nihil una volta per sempre, ma un continuo trarre le cose dalla potenza all'atto, dando per scontato che materia prima e mondo esistono ab aeterno, causati necessariamente da Dio fin dall'eternità. Filosofia e religione rivelata sono un'inscindibile verità, ma mentre la rivelazione - che è diretta a tutti gli uomini - mira al potenziamento della virtù attraverso il linguaggio semplice che colpisce il sentimento e l'immaginazione, spetta ai filosofi (non ai teologi) l'interpretazione e la dimostrazione scientifica dei dogmi forniti dalla rivelazione. 

Ramon Lull (1232 - 1316)

Il suo nome italianizzato è Raimondo Lullo. E' l'autore di quel complicato ed ambizioso progetto di lingua conosciuto come Ars Magna. Lullo è un uomo del Duecento (morirà nel 1316 ), originario di Maiorca, città multietnica, in cui sono ugualmente forti le influenze del cristianesimo, dell'islamismo e dell'ebraismo. In un tale ambiente multilingue, Lullo - divenuto frate francescano - persegue lo scopo di creare una lingua filosofica che possa mostrare agli infedeli le inconfutabili verità del Vangelo. Secondo la leggenda, Lullo muore lapidato dagli stessi saraceni a cui si era presentato per convertirli. A parte l'esito infelice della vita di Lullo, fortuna maggiore ha avuto la sua Ars Magna, soprattutto durante il Rinascimento, su uomini come Cusano.
Il fascino dell'Ars Magna deriva dalla imponente organizzazione del sapere in categorie e nell'adozione della logica, entrambe di origine aristotelica. Lullo stabilisce un alfabeto di nove lettere (b,c,d,e,f,g,h,i,k), alle quali fa corrispondere nove dignità divine, o Principi Assoluti, nove Principi Relativi, nove Soggetti, nove Questioni, nove Virtù e nove Vizi. L'Ars Magna contempla poi delle figure che servono a realizzare la combinatoria delle lettere, e quindi delle dignità, dando origine a tutte le combinazioni possibili. Tali combinazioni corrispondono ad altrettante proposizioni necessariamente vere.
Tuttavia, il gran numero di combinazioni possibili porta all'eventualità di formulare proposizioni contrarie ai dogmi cristiani; ad esempio, applicando il sillogismo a determinate dignità, si può avere: "L'avarizia è differente dalla bontà, Dio è avaro, perciò Dio è differente dalla bontà". Lullo, dunque, procede accuratamente a scartare tutte le proposizioni "scomode", venendo meno al proposito di creare una lingua basata sulla logica e quindi necessaria.
Presupponendo un ordine predefinito del cosmo, l'Ars Magna nega la possibilità di pervenire ad ulteriori verità. Ricercare le possibili connessioni tra le diverse dignità non è uno strumento euristico, perché la realtà è già definita dalle categorie dell'arbor scientiarum: una categorizzazione "ad albero", appunto, che parte dalle nove dignità e si espande fino a definire tutti gli elementi della realtà, descrivendo la Grande Catena dell'Essere.
Questo è, in definitiva, il limite maggiore dell'opera di Lullo: aver considerato assoluta una data organizzazione del mondo, convinto che musulmani ed ebrei non avrebbero potuto far altro che convertirsi, di fronte a tali inconfutabili verità Durante il Medioevo, gli studi che si propongono di ritrovare (o di ricreare) la lingua prebabelica sono caratterizzati da un profondo misticismo. Una forte impronta a questi primi studi è data dalle ricerche di eruditi interpreti della Torah, il testo sacro ebraico; questa lunga tradizione prende il nome di cabalismo ("cabbala" in ebraico vuol dire "tradizione").
Tali studi influenzeranno profondamente i futuri orientamenti del neoplatonismo rinascimentale. Nel Mediovevo, dunque, tali ricerche hanno il loro riferimento diretto nel Vecchio Testamento, sia (come è ovvio) per la comunità dei cabbalisti, sia per la tradizione cristiana, che assume come testo di riferimento la Vulgata, prima traduzione in latino della Bibbia ad opera di San Gerolamo (III secolo d.C.). Un personaggio di rilievo è, in questo periodo, lo spagnolo Llull: inventore del primo sistematico progetto di lingua perfetta, basata su di una "organizzazione del contenuto" ritenuta universale.

Niccolò Cusano (1400 - 1464)

Niccolò Cusano nacque a Kues, in Germania, attorno al 1400. Studiò diritto e matematica a Padova e teologia a Colonia. A venticinque anni diventò prete, poi divenne vescovo di Bressanone e quindi cardinale. Il Concilio di Basilea lo incaricò di rappresentare la Chiesa Cattolica in una missione riconciliatrice in Grecia, allo scopo di sanare la spaccatura con la Chiesa Ortodossa. Pur fallendo, Cusano tornò in occidente con i testi originali dei classici greci e una folta rappresentanza di sapienti, i quali insegnarono il greco (lingua da secoli dimenticata), ai dotti italiani, contribuendo così allo sviluppo dell'umanesimo rinascimentale.
Le sue opere sono: La dotta ignoranza (1440), sua opera principale, Le congetture (1445), L'Idiota (1450), Il gioco della palla (1463). Ne "La dotta ignoranza" Cusano afferma, rispolverando una massima socratica, che "quanto meglio uno saprà che non si può sapere, tanto più sarà dotto." Posto che Dio è la perfezione assoluta e infinita, niente di quello che l'uomo può sapere e imparare raggiungerà mai questa perfezione. La conoscenza dell'uomo non sarà mai perfetta, ma costantemente perfettibile, la scienza degli uomini cerca la verità, ma la verità, come una preda sfuggente, non si farà mai raggiungere.
La conoscenza attraverso la ragione è un tentativo reiterato di cercare di misurare l'incommensurabile, è un tentativo di instaurare una proporzione fra il noto e l'ignoto. Questo tentativo è sempre graduale, del resto non si può conoscere direttamente l'ignoto intero senza una serie di tentativi successivi di avvicinamento.
Cusano porta l'esempio della misurazione di una circonferenza: l'uomo semplifica il problema ipotizzando la circonferenza come un poligono che abbia infiniti lati, ma l'infinito non è proprietà della geometria, scienza finita, e la circonferenza risulterà allora da una semplificazione mistificante.
Cusano usa in questo modo termini matematici e geometrici, i quali hanno la proprietà delle cose finite (e quindi umane), per mettere in luce l'impossibilità umana di conoscere e provare l'infinito attraverso la ragione, infinito che Cusano identifica in Dio.
Se l'infinito non è raggiungibile attraverso la ragione, lo è attraverso l'intelletto, il quale, seppur non arriva a una conoscenza certa del concetto, può arrivare a una sua intuizione. L'infinito è l'unità di tutte le conoscenze, anche quelle opposte, in quanto la perfezione assoluta implica la sintesi suprema tra tesi e antitesi. Questa coincidenza degli opposti fa si che in Dio siano presenti tutti i principi contrapposti che sono all'apparenza inconciliabili. Dio è sia affermazione che negazione.
In Dio convivono i contrari poiche Egli è l'assoluto. In Cusano vi è una continua tensione tra perfezione e impossibilità di raggiungerla, una sorta di sintesi impossibile tra assoluto e umano. L'umano è l'imperfetto perfettibile, il divino la perfezione assoluta in cui tutto trova una sintesi, ma proprio perché divina, impossibilitata a venire a contatto con l'umano. Di fronte all'impossibilità di definire in modo certo la natura infinita di Dio, l'uomo diventa uno spettatore della Creazione, ma non uno spettatore passivo. L'uomo è il fine ultimo della Creazione, creato per riconoscere il valore divino della Creazione stessa. Dio si può conoscere allora per teologia negativa (ciò che Dio non è) o per teologia positiva (Dio è l'infinito), la terza via è la parola di Cristo.
Cristo è anche Dio, quindi la sua infinità divina è per l'uomo un motivo di imitazione terrena, imitazione che sfocia necessariamente in una teologia del dialogo che può favorire, sul piano civile e storico dell'uomo, una riconciliazione dei dissidi (una empirica coincidenza degli opposti). 

Marsilio Ficino (1433 - 1499)

Il nome di Ficino è associato all'incarico affidatogli da Cosimo de' Medici di tradurre le opere di Platone, recentemente acquistate in Grecia. Per poterle tradurle il mecenate gli mise a disposizione una villa presso Firenze che succesivamente divenne un luogo di ferventi incontri culturali, la famosa Accademia Platonica.
Ficino tradusse non solo le opere di Platone, ma anche quelle di Porfirio, Proclo, Plotino, Dionigi Pseudo-Aeropagita, Orfeo, Esiodo e molti altri, contribuendo così a diffondere l'umanesimo analogamente alla missione di Cusano. Homo copula mundi. Nel nuovo clima del Rinascimento, Ficino è fautore di una teoria che riporta l'uomo al centro del mondo dopo i secoli del pessimismo antropologico cristiano.
Per Ficino l'uomo è copula mundi. Cosa significa? Significa che l'uomo è il termine medio tra il divino e il terreno. Il mondo esistente è diviso per gerarchie in cinque parti: al vertice c'è Dio, poi vengono gli angeli, quindi l'anima dell'uomo, la qualità, e per ultimo il corpo.
Quindi l'anima dell'uomo è il centro del mondo, il termine medio (copula), l'entità per mezzo della quale divino e terreno si incontrano. L'uomo ha la libertà di decidere se aspirare all'alto o perdersi nel basso. In sostanza, una posizione di privilegio data dalla coscienza e dall'intuito umano, il quale permette di percepire sia le cose divine che vivere le cose terrene.
Le origini della Rivelazione divina. Secondo Ficino, Il percorso della Rivelazione divina non è cominciato con il Cristianesimo, la sua verità cominciò a manifestarsi anche prima, nell'indagine e nelle opere degli studiosi pagani illustri, primo fra tutti Platone.
Le origini della Rivelazione cominciano con il persiano Zarathustra e con Ermete Trismegisto, mitico sapiente egiziano, continua con Pitagora, arriva a Platone e prosegue nei neoplatonici, Plotino e lo Pesudo-Aeropagita.

Pico della Mirandola (1463 - 1494)

Le opere più importanti di Pico della Mirandola sono le Conclusioni filosofiche, cabalistiche e teologiche del 1486, con la quale cerca di promuovere un riavvicinamento tra la Chiesa cattolica, la religione ebraica e quella islamica (le tre grandi religioni monoteiste rivelate) e La dignità dell'uomo (1487). La sua leggendaria capacità mnemonica gli permise di studiare le lingue ebraiche, l'arabo e il caldaico (lingue dell'antica Mesopotamia), oltre che il latino e il greco.
Il suo desiderio di rinconciliare le tre grandi religioni non andò a buon fine perchè alcune delle sue Conclusioni filosofiche vennero sospettate di eresia dalla Chiesa. Pico fu anche imprigionato per eresia e ottenne il perdono del papa solo grazie all'intervento di Lorenzo il Magnifico.
L'uomo camaleonte. Ne "La dignità dell'uomo" Pico espone il concetto dell'uomo camaleonte. Secondo Pico, Dio creò ogni essere vivente dotandolo di particolari qualità. Così ogni animale ha un particolare istinto che lo rende abile per una certa cosa. Quando Dio creò l'uomo non volle attribuirli solo una qualità ma preferì dotarlo di una parte di tutte le qualità. Quindi l'uomo si trova nella posizione potenziale di scegliere, come per Ficino, tra le "cose inferiori" e le "cose superiori".
L'uomo è un camaleonte che può servirsi a piacimento e secondo l'esigenza di una qualsiasi delle qualità che possiede, e questo gli da un vantaggio considerevole rispetto alle altre speci viventi. L'uomo è dotato quindi di una adattabilità invidiabile nonché del libero arbitrio. Questa libertà di realizzazione umana pone l'uomo al di sopra degli angeli stessi, i quali sono fissi nelle gerarchie celesti, senza alcuna possibilità di miglioramento.

Erasmo da Rotterdam (1469 - 1536)

Il vero nome era Jeert Jeerts, nacque a Rotterdam nel 1469 circa e morì a Basilea. Rimasto orfano fin dalla tenera età, spogliato del suo piccolo avere dai tutori visse disagiatamente. Educato da Steyn, prese nel 1492 convento degli Agostiniani gli ordini ma ottenne più tardi la dispensa dai voti dal Papa Giulio II. Fatti i corsi nel collegio fu poi a Parigi dove seguì Montaigne, in seguito in Inghilterra e a Torino, dove ottenne la laurea e venne a contatto con la teologia. E da qui poi a Venezia con l'umanesimo italiano. Tornato di nuovo in Inghilterra scrisse "L'Elogio della Pazzia" (1509), insegnò teologia all'Università di Cambridge e nel 1516 pubblicò a Basilea l'edizione del testo Nuovo Testamento in greco originale. Infine rientrò in patria, luogo che si confaceva più al suo spirito in quanto vi convivevano Cattolicesimo e la Riforma.
Qui iniziò con Lutero la sua polemica con alcuni scritti come il "De Libero Arbitrio" (1524). La sua figura di intellettuale, sia in campo filosofico che teologico, non si risolve in maniera completa, ma spesso si lascia guidare dalla necessità della polemica. Il suo grande sentimento classico si traduce nell'avversione, come tutti gli Umanisti e i Rinnovatori Religiosi, per la Scolastica. Non apprezza le discussioni astratte o i problemi metafisici o dialettici degli Scolastici perchè non interessano direttamente il sentimento umano e gli interessi sociali, ma sono freddi esercizi mentali. Come umanista e letterato dà grande importanza a ciò che scuote l'animo e commuove, tende ad essere più un ragionatore che un razionalista. Per questo apprezza più di tutti Socrate che meglio di Platone fu sempre a contatto con la vita dell'uomo. Lo sforzo di Erasmo è quello di mettere sulla stessa linea la fede con l'erudizione e il bello stile, come se fossero valori equivalenti. Vuole affermare la sostanziale identificazione dei valori più autentici del Cristianesimo con la sapienza antica. Cerca quindi di togliere al Cristianesimo le asprezze e le affermazioni assolute.
Cerca un equilibrio fra la pura moralità evangelica e la sobrietà e misura pagana; ne è testimonianza il suo latino duttile e colorito, pieno di psicologia, finezza e forza esortativa. La stessa funzione esercita nella lotta all'immoralità, agli abusi ecclesiastici, all'ignoranza e all'intolleranza delle astruserie dogmatiche e ironicamente si abbatte sulla grettezza e sugli eccessi dei razionalisti. Insiste molto sulla figura di Socrate soprattutto nel suo paragone con Cristo. Riconosce la somiglianza fra queste due personalità nella loro opposizione tra valori autentici e valori inconsistenti, nell'equilibrio e dominio di se stessi, in contrapposizione con i beni mondani ed esteriori. Mostrando la somiglianza fra Socrate e Cristo, Erasmo vuole concretizzare con i comportamenti dei due più illustri rappresentanti, la coincidenzatra etica cristiana e etica pagana. Erasmo satireggiò la degenerazione di un epoca corrotta, i vizi dei laici come quelli degli ecclesiastici e da principio vide in Lutero il riformatore dei costumi e il polemista contro i privati teologi.
La satira erasmiana, apparentemente spregiudicata, è densa di motivi etici. Per lui la Pazzia infatti è l'illusione, la menzogna di cui la vita dell'uomo si ammanta per nascondere la sua cruda realtà, ma il principale obiettivo della polemica è costituito dal clero e dallo stato della Chiesa.
Devozioni degne di riso sono per Erasmo l'accendere candele dinanzi ad immagini in pieno giorno o intraprendere peregrinazioni in luoghi dove nessun motivo plausibile spinge ad andare. Erasmo crede nella fedeltà allo spirito del vangelo, rifiuta ogni fanatismo e dogmatismo della dottrina cristiana dimostrando di aver fatto sua la più alta lezione dell'Umanesimo proprio in questo senso critico e sereno, nella sua prudenza e ricerca di misura. Erasmo intende il rinnovamento religioso come la coscienza umana che ritorna alle origini del Cristianesimo e studia con la filologia i testi sacri per ritrovarne l'autentico significato.
Come umanista il suo compito si ferma qui, fa parte del mondo dei dotti e come tale è contrario a coinvolgere con la religione, forze politiche o sociali estranee al mondo della cultura. Per questo, quando Lutero nel 1519 gli chiede di appoggiare la Riforma, pur approvandone i principi che in massima parte lui stesso ha indicato, si rifiuta di seguirlo nell'opera rivoluzionaria.
 
Paracelso (1493 - 1541)

Philippus Theophrastus Bombast von Hohenheim (detto Paracelsus) nacque il 14 novembre del 1493 a Einsiedeln, un villaggio vicino alla città di Zurigo, in Svizzera. Suo padre, Guglielmo Bombast di Hohenheim, era un medico discendente dell'antica e celebre famiglia Bombast detta di Hohenheim dalla sua antica residenza. Nella prima giovinezza, Paracelso ricevette un’istruzione scientifica da suo padre, che gli insegnò i rudimenti dell'Alchimia, della chirurgia e della medicina. In seguito continuò gli studi sotto la guida dei monaci del convento di Sant'Andrea (nella valle di Savon) e sotto l'egida dei dotti vescovi Eberhardt Baumgartner, Mathias Scheydt di Rottgach e Mathias Schacht di Freisingen.
Successivamente fu istruito dal celebre Johann Trithemius di Spanheim, uno dei maggiori adepti della Magia, dell'Alchimia e dell'Astrologia del suo tempo, venerato nel seicento, insieme ad Agrippa von Nettesheim, come uno dei maggiori luminari dell’Arte Spagirica (Alchimia Esterna). Sotto la guida di questo maestro Paracelso coltivò e mise in pratica il suo talento e il suo amore per l’occulto. Il giovane Theophrastus assunse probabilmente in quel periodo il suo soprannome latinizzato "Paracelsus" intendendo accentuare la sua convinzione di essere superiore all’arte medica del passato.
Visitò la Germania, l'Italia (dove forse si laureò in medicina presso l’Università di Ferrara), la Francia, la Spagna, l'Olanda, la Danimarca, la Svezia, l’Inghilterra, la Polonia, la Russia e molte altre regioni dell’est europeo. Forse si recò anche in India, e dopo essere stato fatto prigioniero dai Tartari e portato al cospetto del Khan, ne accompagnò il figlio a Costantinopoli nel 1521. Secondo la relazione di Van Helmont, là ricevette la Pietra Filosofale. La leggenda narra che l'adepto da cui Paracelso ricevette questa pietra fu un certo Solomone Trismosinus (o Pleiffer) compatriota di Paracelso.
Si dice che questo Trismosinus fosse anche in possesso della Panacea Universale; e si afferma che sia stato visto, ancora vivo, da un viaggiatore francese, alla fine del diciassettesimo secolo. Nel 1525 Paracelso giunse a Basilea, e nel 1527, per raccomandazione di Ecolampadio, fu nominato dal Consiglio Cittadino professore di fisica, medicina e chirurgia ricevendo un onorario notevole. Le sue lezioni non erano come quelle dei suoi colleghi: semplici ripetizioni delle teorie di Galeno, Ippocrate e Avicenna. Paracelso insegnava le sue proprie dottrine indipendentemente dalle opinioni altrui, ottenendo il plauso dei suoi studenti e facendo inorridire i suoi ortodossi colleghi. Il 24 giugno del 1527 bruciò pubblicamente in piazza gli scritti di Galeno e di Avicenna, ripetendo le parole sacramentali: "Così ogni mala cosa si disperda nel fumo!"
La crescente ostilità dei medici accademici e una lite giudiziaria costrinsero Paracelso, nel febbraio del 1528, ad abbandonare Basilea. Paracelso riprese la sua vita randagia vagabondando per il paese, come aveva fatto in gioventù, vivendo in villaggi, taverne e osterie. Numerosi discepoli lo seguirono, attratti dal desiderio di sapere o dalla brama di acquistare la sua arte e valersene a proprio profitto. Il più noto dei suoi seguaci fu Johannes Oporinus, che per tre anni lo servì come segretario e che poi divenne professore di greco, scrittore conosciuto, libraio e stampatore a Basilea. Paracelso era decisamente reticente nel confidare i suoi segreti, anche con i propri discepoli. Oporinus, dopo aver abbandonato il proprio maestro, parlò duramente di lui, schierandosi con i suoi nemici. Ma dopo la morte di Paracelso, egli si rammaricò della propria indiscrezione ed espresse grande venerazione per lui.
Paracelso fu a Colmar nel 1528, e a Esslingen e a Norimberga tra 1529 e il 1530. I "medici regolari" di Norimberga lo denunciarono come ciarlatano e impostore. Per confutare le loro accuse egli chiese al Consiglio Cittadino di affidargli la cura di alcuni pazienti che erano stati dichiarati incurabili. I successi ottenuti da Paracelso non mutarono la sua fortuna, ma accrebbero le ostilità degli accademici condannandolo a nuovi e continui vagabondaggi. Morì il 24 settembre 1541, all'età di quarantotto anni e tre giorni in una stanzetta della locanda del "Cavallo Bianco" lungo il fiume. Il suo corpo fu sepolto nel cimitero della chiesa di San Sebastiano, conformemente alla sua volontà. Il Principe Arcivescovo ordinò due solenni funerali. Sulla tomba fu eretta una piramide, al centro della quale fu posto il suo ritratto. Grava ancora un mistero sulla sua morte: molti biografi sostengano che egli morì di morte violenta, dovutaa veleno o a ferite. Nulla avvalora però questa tesi. Il cranio di Paracelso fu ripetutamente esaminato: esso presentava in realtà una frattura lungo l'osso temporale, ma non ci sono prove che facciano supporre che tale ferita glisia stata inferta in vita.
Paracelso non ebbe pace nemmeno nella tomba: fu dissepolto innumerevoli volte (sette spostamenti delle spoglie sono documentati) e le sue ossa furono scompigliate e trafugate. 

Tommaso Campanella (1568 - 1639)

Nato a Stilo, in Calabria, nel 1568, Tommaso Campanella entrò nell'ordine dei domenicani quando era ancora molto giovane, ma, a causa delle sue idee in fatto di religione, si ritrovò ben presto nel mirino degli inquisitori, dai quali fu accusato di eresia e rinchiuso in carcere a Roma, nello stesso periodo di Giordano Bruno.
Nel 1599 tornò in Calabria, dove tentò di organizzare un'insurrezione contro il dominio spagnolo e di gettare le basi per una profonda riforma religiosa. Anche in questa occasione fu arrestato e condannato, ma riuscì a salvarsi dalle torture fingendosi pazzo. Il suo presunto stato mentale non poté, però evitargli il carcere: rimase rinchiuso per 27 anni, durante i quali trovò la forza per continuare a scrivere, specialmente di filosofia. Fu proprio durante la prigionia che compose un'opera dedicata a Galileo, del quale apprezzava incondizionatamente (e pericolosamente) il lavoro ed il pensiero.
Nel 1626 riacquistò una parziale libertà: uscì dal carcere ma rimase a Roma, sotto il controllo del Sant'Uffizio. Grazie alla benevolenza di papa Urbano VIII, anche questo vincolo venne in seguito eliminato ma, nel 1633, Campanella venne nuovamente accusato di eresia e di propaganda antispagnola, così, prima che la situazione precipitasse, decise di rifugiarsi a Parigi, sotto la protezione di Richelieu, e di dedicarsi alla pubblicazione dei suoi scritti. Morì nella capitale francese nel 1639. Insieme con Giordano Bruno e Bernardino Telesio, Tommaso Campanella fu uno dei principali anticipatori di alcuni importanti argomenti della filosofia moderna e il suo pensiero testimoniò di questo passaggio tra Medioevo e modernità oscillando tra la trascendenza tradizionale del cattolicesimo e l'immanentismo del naturalismo rinascimentale. 

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